martedì 1 dicembre 2015

Arte a Parte.

Tre artiste contemporanee al confronto.  
Shirin Neshat 
Vanessa Beecroft.
Marina Abramovich
A cura di
Maria Pia Giansanti, presso il museo Nori De Nobili. 



In tempi duri dobbiamo avere sogni duri, sogni reali, 
quelli che, se ci daremo da fare, si avvereranno.
 Clarissa Pinkola Estés


“Arte a parte” suona come un indizio, una specie di equazione, forse un risultato o una constatazione alla quale era necessario giungere prima o poi. Andava detto a voce alta, percentuali alla mano, per poter definire esattamente il punto zero al di là del quale semplicemente ripartire per portarsi avanti.
Il tema lo conosciamo troppo bene per fingere stupore, ci è familiare, eppure resistono qua e là segni di incredibili distrazioni da parte di tante persone. Alcuni le chiamano “retaggi culturali” queste distrazioni, altri “abitudini”, altri ancora “religioni”, o "effetti collaterali della guerra" -quando il setting è una zona di guerra- qualcuno dice che è normale, che è poca cosa, e non manca chi ha troppo da fare per perdere tempo a dargli un nome, perché si sente avanti rispetto al punto zero di cui sopra. 
In effetti ho mischiato le carte, perché il ruolo delle donne nel mondo dell'arte (che è il motivo per cui il blog si intitola "arte a parte") e la violenza che esse subiscono in senso fisico, morale e psicologico, sono argomenti da separare almeno con una virgola, o forse no, se l’una racconta possibili motivi dell’altra. 
Maria Pia Giansanti ha unito le due facce del discorso, in occasione di un incontro tenutosi a Ripe la sera del 24 novembre, in anticipo di qualche ora sul 25 novembre, ovvero la giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne. Sono dunque fuori tempo massimo, ed è positivo, mi sembra, perché ogni scusa è buona a volte, per uscire dai binari, senza contare che certi temi vanno continuamente sollecitati. 
 Non nascondo un po’ di disagio per il folclore, per le giornate di questo e quello, che spesso diventano fiumi di retorica, di figurine ad effetto sui social e poi addio fino al prossimo anno, tuttavia, se possono servire per smuovere le acque, con eventi come quello al quale ho assistito, ben vengano anche loro.

Al museo Nori De Nobili, presso Trecastelli -Ripe- si è tenuto un interessante incontro "a tema" che è stato il pretesto per una riflessione sapientemente elaborata dalla professoressa Anna Pia Giansanti sull’arte contemporanea declinata al femminile attraverso il lavoro di tre artiste che raccontano, fra le tante cose, anche una necessità, che si è fatta pressante, e che consiste nell’abituarsi a cercare chiavi di lettura “globali” e non più soltanto europee o italiane. Ho apprezzato particolarmente la scelta di proporre artiste ancora viventi, piuttosto che nomi del passato, già metabolizzati dal grande pubblico e santificati dai testi di storia dell'arte. La contemporaneità è un libro incompleto, perché viene scritto di giorno in giorno, ed è più difficile a volte sentirla propria, tuttavia è tempo di abituare l'occhio.  


Perché “arte a parte”?
Nel 1985 un sondaggio realizzato da alcune artiste americane ha rivelato che nei musei, l’85% delle donne presenti, erano… nude, quindi incorniciate ed appese su muri sontuosi e bene illuminati, nelle vesti di soggetti artistici.
Non ho potuto non pensare a Robert Browning e alla sua ultima duchessa (“My last duchess” è una poesia del 1842). I versi narrano di un tiranno italiano il quale, geloso del sorriso che la moglie ostenta in un dipinto, arriva a farla uccidere perché non tollera la complicità di lei col pittore, anche se solo per il tempo di esecuzione del lavoro, decide quindi di coprire l’opera, così che solo lui e qualche prescelto abbiano il privilegio di osservare, di tanto in tanto, quel bell’oggetto che un tempo era anche vivente, e che era sua moglie. Da ciò il titolo della poesia, in cui il possessivo assume valore assoluto. 

Parentesi poetica a parte, serve del tempo affinché le donne "scendano" dalla tela e impugnino i pennelli. Bisognerà aspettare il novecento per avvertire un sensibile cambiamento. Le donne nell'arte (e non solo?) cominciano infatti ad "esistere" nel XX secolo, imparano ad usare tecniche pittoriche moderne, sperimentali, affrontano tematiche delicate a volte evitate dagli uomini, e questo segna la loro effettiva emancipazione, infine. Le artiste di cui parleremo, sono diventate operative attorno agli anni sessanta/settanta. 

Per il piacere di condivisione, e nella speranza di promuovere curiosità in chi non conosce affatto queste donne, riporterò qualche informazione appresa a Ripe dalla Giansanti, aggiungendo se e quando possibile, dei link che sono il vantaggio di chi abita on line. Vorrei riportare tutto e di più, ma diventerebbe un discorso lunghissimo - forse lo diventerà comunque. Consiglio di consultare i link in un secondo momento, per evitare di perdere il filo. 
1
Shirin Neshat 
(Nasce in Iran nel 1957, attualmente vive e lavora a New York)
Marc Abrahams picture.
www.markabrahams.com
Vedo la mia opera come un excursus pittorico sul femminismo e sull’Islam contemporaneo, una discussione che analizza miti e alcune realtà per giungere alla conclusione che si tratta di problemi molto più complessi di quanto molti non pensino

L’artista lascia il paese e la famiglia nel 1974, ancora diciassettenne, per completare il suo corso di studi in California, grazie ad un padre emancipato, che la lascia libera di studiare e di partire.  Quando, a 33 anni, nel 1990 torna in patria, fatica a riconoscere la sua terra, ed è scioccata nel constatare il radicale cambiamento di costumi ed abitudini del suo popolo. Le donne devono indossare per legge lo chador, un lungo velo nero che copre tutto il possibile, ed in pubblico sono costrette al silenzio. Chi ha visto Persepolis” di Marjane Satrapi (2007), non farà fatica a riconoscere dei punti in comune, anche se in questo caso, si tratta di una grafic novel autobiografica realizzata nel 2000, adattata dall'autrice stessa per il grande schermo nel 2007, e candidata all’Oscar, oltre che premiata con vari César. 

Women of Allah, Collage.
Secondo un sondaggio, questa è la più bella foto
 realizzata nel novecento. 

Women of Allah” è una raccolta fotografica in bianco e nero del 1993. In queste immagini vengono ritratte le uniche parti del corpo che la donna può scoprire, quindi volto, mani, piedi, spesso associate ad armi o a rose. Gli "spazi vuoti" vengono riempiti da segni grafici che ai nostri occhi hanno dell’esotico, del decorativo, e risultano suggestivi. In realtà si tratta di frammenti di opere di scrittrici iraniane in persiano moderno. Il tema di questi scritti è legato al piacere, al peccato, alla sessualità. L’artista usa la scrittura per “riempire” quei pochi spazi scoperti che la legge consente, e li riempie di desideri. Penso ancora al cinema francese (Anche Persepolis è realizzato in Francia), ovvero Jules et Jim di Truffaut (1962), alla scena in cui Kate usa la metafora dell’inchiostro rosso che viene assorbito dal foglio, come simbolo di fecondazione.
Il soggetto fotografato raffigura quasi sempre l’artista stessa, che diventa così soggetto oltre che ideatrice dell’opera. A causa dei contenuti suddetti, in Iran le sue foto non sono mai state mostrate.


Women of Allah.
Questa foto mi ha fatto pensare alla nota poesia di Emily Dickinson "My life had stood - a loaded gun"  Il trattino nel titolo sembra segnare un parallelo fra la vita della poetessa e la "loaded gun", cioè un'arma carica, un oggetto senza vita, che può "parlare", cioè sparare, solo se un uomo decide di farne uso. "The owner passed -identified- and carried me away". Vero però che il destino del fucile è quello di uccidere e non di morire. Molte le chiavi di lettura per questa splendida poesia, che fu un riferimento importante per le femministe, ma in questo contesto, mi colpisce l'antitesi rispetto alla foto di Sharin Neshat. Qui è la donna ad impugnare l'arma, e dunque a lei il potere di uccidere, ma anche di morire. Come può infatti, una donna che la società "condanna" ad essere niente altro che madre e moglie, impugnare un'arma per uccidere? Da cui la denuncia di uno dei tanti paradossi dei nostri tempi e di pesanti realtà storiche attuali. 


Nel 1997 Sharin Neshat si avvicina al cinema e realizza “the shadow under the web”, un’istallazione difficile da proiettare anche per via delle difficoltà tecniche del caso. Servono quattro schermi ai quattro lati di una stanza, sui quali vengono proiettate immagini di una donna coperta dallo chador. La vediamo aggirarsi lungo le strade e la sentiamo respirare. E' un respiro affannoso, che evoca mi sembra, anche un richiamo velato al sesso (scritto sulle fotografie già citate). Ancora una volta il soggetto dell’opera è l’artista stessa, che corre senza tregua lungo strade tipiche dei suoi luoghi di nascita, anche se gira ad Istambul, perché voleva che gli ambienti fossero islamici e riconoscibili. Sappiamo che non sono ben viste le donne che corrono (penso ad una scena di Persepolis risolta però in chiave ironica). La corsa è in effetti una specie di patologia occidentale, dove, come dice il detto "chi si ferma è perduto", lì è diverso, quindi si ha come l’impressione di una vertigine fra luoghi e spazi in cui una donna vaga come un fantasma. Questa performance presenta elementi autobiografici, e narra di uno spostamento fra due mondi, quello occidentale e quello orientale, molto diversi, quasi inconciliabili. Sui quattro schermi, le immagini scorrono senza un preciso ordine cronologico, quindi è quasi impossibile trarne un senso di continuità. 

Turbulent del 1998 è premiato alla biennale di Venezia del ’99, con buon successo di pubblico. Sta volta si tratta di due proiezioni separate. Un uomo e una donna si esibiscono in fasi alterne sul palco di un teatro. "Lui" indossa una camicia bianca, ha un pubblico che applaude e canta melodie tipiche, "Lei" invece, è vestita di nero, non ha pubblico, e canta litanie senza parole.  
Link via you tube al film. (Dura sui nove minuti)

Zarin nel 2005 è un film a colori, e racconta la storia di una bambina violentata, poi costretta alla prostituzione che diventa anoressica, quindi rifiuta il cibo e la vita. Riesce infine a fuggire dalla casa di tolleranza. Si rifugia in un luogo termale femminile, e qui si lava -gesto evidentemente simbolico- fino a sanguinare. 
Link: Dal sito dell'artista.

Rapture 1999 (quattro minuti circa, bellissimo.). Come in "turbulent", uomo e donna vengono separati in due video diversi e frontali, sta volta però si tratta di moltitudini, gruppi umani vestiti in modo analogo. Donne con lo chador, uomini con camicia bianca e pantaloni.  Le donne sono mostrate in prossimità del mare, che è simbolo forse amniotico, e anche un limite "naturale", ma diventa per loro una possibilità di evasione, mentre gli uomini sono rinchiusi in fortezze, torri, che permettono una "supervsione", dunque metafora del potere, ma anche di distanza ed immobilità. 

Soliloquy, girato in Turchia e negli Stati Uniti, e terminato nel 1999, è ancora una volta un film a due voci, e a due video frontali. Da una parte la donna d'oriente, dall'altra quella occidentale. In comune hanno una finestra, che rimanda porzioni di mondi diversi. 

Donne senza uomini è del 2009, a colori, ottiene un Leone d’argento al festival di Venezia. Di nuovo tratta una storia di violenze sulle donne, che simboleggiano per la Giansanti la fine della democrazia in Iran. Link -trailer e intervista alla regista-

Il film è ambientato nel 1953, anno del colpo di stato in Iran. Vedi link per maggiori dettagli storici. (Mohammad_Reza_Pahlavi

Concludo con una riflessione di Ulrike Lehmann
"I film di Shirin Nazat, in cui l'azione è volontariamente ridotta e che si basano sulla forza suggestiva delle immagini, sono l'espressione della sua esperienza delle due culture. Per questo seguono sempre un principio dualistico: in una perfetta combinazione di finzione e realtà, descrivono due mondi (uomini e donne, est e ovest, libertà e fondamentalismo, tradizione e modernità) con un rispetto totale. Senza bisogno di parole, i suoi film raggiungono livelli emotivi profondi solo con le immagini e la musica, raccontando la realtà senza essere realistici e rimanendo allo stesso tempo enigmatici" 



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Vanessa Beecroft 
(Nasce a Genova nel 1969, attualmente vive a Los Angeles)
Foto di Joshua Kesser/Retna
Da ELLE, rivista
-Questo il link alla fonte della foto-
 “Sono interessata al rapporto fra le figure umane come donne vere e la loro funzione di opera d’arte o immagine” 
Nelle sue opere la violenza narrata è più sottile, subdola, commerciale, praticamente…occidentale. Qui le donne hanno per nemico principale lo specchio ed una quantità di falsi miti ormai assimilati come verità assolute. Se Shirin Nazat decidesse di realizzare un album stile “Le donne di Allah” in versione Dolce e Gabbana, diciamo che avrebbe tantissimo spazio per scrivere versi che forse, per sottolineare il paradosso, sarebbero sacri, o comunque non “carnali”. 
Donne slanciate, magre, molto pallide o scure, seminude, coi tacchi ai piedi, che a volte indossano parrucche cotonate, vengono disposte come in una scultura vivente, in posa, immobili, in attesa di qualcosa che non accade. “Non si muove nessuno, non succede nulla: non c’è nessuno che dia inizio a una cosa qualsiasi, nulla che sia condotto a termine”
Nelle sue opere l’autobiografia ha un ruolo essenziale.

La sua prima esposizione a Milano, nasce da un diario personale intitolato: “despair” 1895-1993, in cui elabora il suo rapporto col cibo, che rifiuta in quanto anoressica, ma scrive anche in merito ai suoi stati d’animo e sui rapporti coi genitori. La performance che realizza per materializzare i suoi incubi e forse esorcizzarli, consiste nello scegliere ragazze in giro per strada, alle quali chiede di indossare i suoi abiti di quando era più magra, e le invita a leggere il suo diario con “comprensione”. Le ragazze diventano così, per la misura degli abiti che indossano, e per il fatto di leggere il diario dell’artista, figure esterne rispetto all’opera, ma anche soggetti della stessa.  L’artista si dice guarita dall’anoressia, anche se le sue opere continuano a parlarne. Ne mostrano l’esistenza, rischiando forse (ma è solo un mio parere) di “nobilitarla” ulteriormente viste le perversioni di questa patologia psicologica che passa per lo specchio e si compiace di mostrarsi nuda ed in forme estremamente esili.

Il corpo delle donne è inflazionato: pubblicità, televisione, passerelle, perché usare ancora il nudo per l'arte? «Perché questo scava nel mio essere, è autobiografico, è ciò che mi colpisce: riguarda l'espressione artistica e anche la sociologia».
I tableaux vivants di Vanessa Beecroft sono ad alto impatto emotivo. Un'immagine ferma che vieta alle modelle qualsiasi interazione con il pubblico. Sono ormai una settantina le performance che l'artista genovese ha portato in giro per il mondo. A Firenze ne presentò una nel 2004 in occasione di Pitti quando invase il Tepidarium del Giardino dell'Orticoltura di corpi femminili in pose diverse, tutte coi piedi affondati nella terra. -da La Repubblica Link- 





Nelle performances successive, l'artista usa delle vere modelle e non più delle passanti. Nei “tableaux vivants” (da 1 fino a 65) sfrutta, mi sembra, innanzi tutto il doppio significato della parola “tableau” che sta per quadro, ma anche per tavolo, e il “soggetto” di questo quadro sono le mode alimentari del momento, quelle “a colori”, secondo le quali occorre mangiare cibi monocromatici e realizza opere in cui donne seminude, siedono a tavola con sguardo assente, e non mangiano.
Queste donne quasi identiche, danno la misura di un'omologazione che, a conti fatti non le rende troppo distanti dalle donne col velo di Shirin Neshat. Mi sembra che le due artiste, alla maniera di una parentesi tonda, racchiudano gli estremi del mondo femminile, fra imposizioni ed autoregolamentazioni violente che non ammettono troppe sfumature.


Figura praticamente speculare del tavolo delle anoressiche, il tavolo degli emigranti africani. Vetro per entrambi. Anche qui abiti che sanno di divisa, e cozzano con le espressioni degli uomini, che sembrano a disagio. Su questo tavolo c'è carne, e loro mangiano, ma con volti che tradiscono espressioni di vario tipo, fra fastidio, umiliazione, rabbia.

Allego l'estratto di un articolo sull'argomento: 
"Il titolo dell'incontro è “Nero su Nero”: mi è venuta in mente la volta in cui invitasti a una tavolata degli africani a mangiare carne con le mani, di fronte a un pubblico che guardava dentro un museo (il Pac di Milano).
Nero su Nero, interessante. Si. Uno dei poeti che aveva partecipato a quella cena mi aveva detto che il nero su nero non faceva altro che valorizzare il nero, quella frase mi diede molto coraggio perché avevo molti dubbi sul rappresentare qualcosa che non mi apparteneva, l’appartenenza all’Africa è una condizione che non conoscevo, al contrario di tutto ciò che rappresento. Con le donne mi spingo sempre oltre, le spoglio nude, metto i tacchi perché tanto mi sto auto-rappresentando e quindi so fino a che punto posso spingermi. Con gli uomini non mi sento sicura, e quindi non volevo abusare, rendendoli oggetto.
Si effettivamente il tuo lavoro ha sempre messo al centro la donna, mai un uomo e quella performance fu spiazzante perché al posto di modelle misi dei maschi, neri. Perché?
Lo avevo fatto apposta, per dispetto al pubblico milanese.
Perché?
Perché già la gente cammina schivando queste presenze di uomini neri sulla strada e allora ho pensato "adesso ve le metto nel museo così almeno siete obbligate a guardarli" e ho anche chiesto a questi uomini di fumare delle sigarette..."  dal link-Repubblica.it-
I gigli diventano patate. 
Nel 2005, realizza: “I gigli diventano patate” al Tepidarium di Firenze. Qui troviamo donne nude che evocano Botticelli per via dei loro capelli lunghissimi. Le donne sono alle prese con un processo a ritroso, come se da fiori, diventassero bulbi, mischiandosi con la terra, e letteralmente sporcandosi con essa. 
"La terra è un riferimento alla land art, molto scura e umida, come la terra ricca dei campi coltivati. La performance contrappone la purezza dei corpi femminili, la loro nudità, con il colore sporco della terra e la sua materia. Alcune modelle sono simili a gigli e altre simili a patate".dal link: Giovaniartisti.it


Nel 2008 le sculture viventi di Vanessa Beecroft, performance "VB62", hanno inaugurato a Lo Spasimo di Palermo le attività della Fondazione GOCA.

27 donne dipinte di bianco si sono confuse a 13 statue in gesso con un richiamo alla scultura siciliana barocca ed in particolare a quella dell'artista Giacomo Serpotta. Una ricerca voluta dalla Beecroft ed enfatizzata dallo spazio di accoglienza, la Chiesa di Santa Maria dello Spasimo, e nuova occasione per indagare la condizione femminile nell'arte e nella vita attraverso il corpo. La performance verrà portata in altri paesi.” Da:Da: www.artsblog.it/



Donne stese a terra in un lago di sangue. 


2010 al mercato ittico di Napoli, donne dipinte di nero, mischiate a pezzi di anatomia finti, per denunciarne lo sfruttamento.


“VBSS (Vanessa Beecroft South Sudan) è un progetto iniziato nel 2005 nel corso di un viaggio compiuto dall’artista in Sudan. Al posto delle fredde e lontanissime modelle, i soggetti qui riprendono un repertorio quasi popolare. A volte l’artista stessa è ritratta come una Madonna bianca, con al seno due piccoli gemelli neri, richiamo alla sua esperienza diretta negli orfanotrofi del Sudan. 

Altre immagini, come questa donata all’Hospice, presentano una tipologia iconografica di matrice cristiana con San Giuseppe, il Bambino e la Madonna, caratterizzati però dalla perfezione tecnica tipica dell’artista: grande equilibrio formale e attenzione quasi maniacale per la disposizione delle figure. L’immagine della Madonna bianca affiancato a un San Giuseppe e il Bambino neri scardina il concetto di supremazia etnica diventando simbolo dell’unione universale tra i popoli. La serie è stata esposta nel 2008, a cura della Galleria Lia Rumma, presso il Piccolo e Grande Miglio del Castello di Brescia. da: www.doutdo.it

Anna Pia Giansanti ricorda che Vanessa per due anni farà la spola fra Sudan/NY per seguire questi due bambini che vorrebbe adottare, ma non riesce per via di innumerevoli problemi burocratici. Inoltre, nella foto dell'artista coi due bambini in braccio, le crepe sul muro, così come l'abito bruciato in fondo, evocano simboli di distruzione. 
E’ difficile classificare il suo lavoro, ripetono i critici. Performance? sculture viventi? ritratti moderni, o nature morte dalla valenza psicologica composte con soggetti vivi? La domanda rimane aperta.

3
Marina Abramovic
(Nasce nel 1964 a Belgrado, vive e lavora ad Amsterdam, Paesi Bassi.) 

"Il corpo è il materiale dove le cose accadono" 


Figlia di partigiani, poi ufficiali del governo socialista (Tito al potere), vive con sua nonna, che è una serba ortodossa devota (suo nonno verrà dichiarato santo). L’arte sarà per lei una forma di reazione ad una situazione familiare (e storica) complessa e contraddittoria, che è stata vissuta da tante persone nei Balcani, e forse anche per questo la sua arte risulta così profonda e rappresentativa. 

L’artista si definisce “nonna della body art”
La body art è un movimento artistico nato negli Stati Uniti alla fine degli anni Sessanta del sec. XX e diffusosi poi anche in Europa, caratterizzato dall'uso del corpo (dell'artista stesso o di altre persone) come oggetto su cui compiere operazioni, o come soggetto che si esibisce in pubblico.  (dal web) 
Marina Abramovic usa infatti il suo corpo, in modo anche estremo, per affrontare paure ancestrali, per “apprendere”, sperimentare e sopportare il dolore e per testarne il limite estremo. 
Osserva la Giansanti, che la body art è, in un certo senso, il contrario del dandismo, che si reggeva interamente sulla “superficie”, sulla maschera, su un senso di apparente disinteresse verso tutto ciò che è profondo, anche se, poeti come Baudelaire ci insegnano che nella posa del distacco, si nasconde una forma di protesta: “voi siete la maggioranza, ma occorre che impariate a sentire la bellezza”, scrive rivolgendosi alla borghesia, che si afferma proprio con l’industrializzazione, nel XIX secolo. Il dandy spende soldi che non sempre ha, per abiti ed oggetti che non sempre può permettersi. Lo fa per reagire ad un nuovo sistema di potere, che ha per solo Dio il denaro, al quale sacrifica, fra le tante cose, la “inutile” arte. 

La Abramovic si pone agli antipodi del Dandy perché non cerca la bellezza, ma la sofferenza -non la superficie ma le profondità estreme- 
Forse il punto d'incontro con Baudelaire, visto che l'ho citato, sta nella poesia "L'héautontimoruménos" che recita versi del tipo: 
...
Sono la piaga e il coltello! 
Sono lo schiaffo e la guancia! 
Sono le membra e la ruota, 
la vittima e il carnefice! 
Dopo gli studi presso l'Accademia di belle arti di Belgrado, dal 1965 al 1972, Marina insegna presso l'Accademia di belle arti di Novi Sad



Rythm 10, 1973 
Il gioco del coltello serve a testare la propria abilità e capacità di concentrazione, e consiste nel posizionare una mano su una base piana, tenendo le dita divaricate. Con l'altra mano bisogna impugnare un coltello e farlo saltellare sempre più rapidamente da fra un dito e l'altro, senza tagliarsi. Si svolge così la prima storica esecuzione realizzata dall'artista. 
Venti coltelli esposti in modo ordinato su un telo, e due registratori. Ad ogni taglio che si procura, cambia coltello e riparte. Dopo essersi tagliata venti volte, l'artista fa scorrere la registrazione, ascolta i suoni e tenta di ripetere gli stessi movimenti, cercando di replicare gli errori, mescolando passato e presente. Tenta di esplorare le limitazioni fisiche e mentali del corpo: “Una volta che sei entrato nello stato dell'esecuzione, puoi spingere il tuo corpo a fare cose che non potresti assolutamente mai fare normalmente.” (Kaplan, 9)



Rythm 0, 1975  
Ciò che era iniziato piuttosto in sordina per le prime tre ore, con i partecipanti che le giravano intorno con qualche approccio intimo, esplose poi in uno spettacolo pericoloso e incontrollato; tutti i vestiti della Abramovic furono tagliati con lamette; nella quarta ora le stesse lamette furono usate per tagliuzzare la sua pelle e da cui poter succhiare il suo sangue. Il pubblico si rese conto che quella donna non avrebbe fatto niente per proteggersi e che era probabile che venisse violentata; si sviluppò allora un gruppo di protezione e quando le fu messa in mano un'arma carica e il suo dito posto sul grilletto, scoppiò un tafferuglio tra il gruppo degli istigatori e quello dei protettori. Mettendo il proprio corpo in condizione di farsi male, la Abramovic crea un'opera molto seria nei confronti dell'arte, allo scopo di affrontare le sue paure circa il proprio corpo" [Paul Schimmel, Un salto nel vuoto: la performance e l'oggetto]


Con questa performance, l'artista diventa un'icona della Body art. 
E' completamente nuda in una stanza, e qui, seduta a un tavolo, mangia un chilo di miele con un cucchiaio d'argento, poi beve un litro di vino, e  rompe il bicchiere con le sue mani. Si disegna una stella di David sulla pancia, che farà deliberatamente sanguinare. Si fustiga, poi si distende su una croce di ghiaccio, mentre un getto d'aria calda fa sanguinare la ferita che si è inferta sul ventre. Alla fine saranno gli spettatori a salvarla, perché impossibilitati a rimanere impassibili mentre tutto ciò accade sotto i loro occhi. E' dunque essenziale il ruolo attivo dello spettatore per la riuscita della sua opera.  La Giansanti nota un riferimento ai dipinti del periodo barocco, in cui non mancavano scene di grande violenza, spesso riferite a vite dei santi. 



Nel 1976 si trasferisce ad Amsterdam, dove conosce Ulay, artista tedesco che sarà suo compagno di vita per molti anni, oltre che compagno di molte sue performance. Si lasciano ufficialmente nel 1988 con una performance dal titolo "The lovers" che ha dell'epico, ovvero, percorrono partendo dalle estremità opposte, l'intera muraglia cinese in 90 giorni, per un totale di 2000 km. Lui aspettava un figlio da un'altra donna, e lei ha deciso di andare via. I due danno, come spesso succede in questi casi, due versioni che tendono a passarsi le "cause" della rottura, anche se essa è parte del gioco. 

Altro incontro rilevante dei due, nel 2010, in occasione della performance "The artist is present", che consiste in uno scambio di sguardi ed energie, anche se in silenzio e divisi da un tavolo, all'interno del MoMa, a NY. Fra i partecipanti, compare anche Ulay, e contravvenendo alla regola di non toccarsi, l'artista gli concede un contatto. 
-link- 
In questo link invece: The lovers, e intervista ai due sulle ragioni della fine della loro storia.
Qui: Marina & Ulay Archival.  con il riassunto delle diverse collaborazioni.

1977 Imponderabilia Con Ulay, forma una specie di "porta" umana molto stretta all'ingresso della galleria, e la gente deve passare fra loro due, nudi se vuole entrare. 

Concludo con una performance particolarmente impegnativa, in senso emotivo (per chi guarda) e immagino, durissimo per lei che lo realizza. 


Si intitola Balcan Baroque,  1997, alla biennale di Venezia, dove riceve un Leone d'oro. Nel video che allego è spiegato tutto al meglio, e consiglio di vederlo per farsi un'idea. La performance consiste nello stare seduta per più di quattro giorni, accanto a secchi di rame colmi d'acqua, a pulire 1.500 ossi di bovino cantando canzoni della sua infanzia. Il titolo è abbastanza indicativo delle sue ragioni visto che nel secolo scorso, "Balcani" ha fatto rima con "guerra". 

Ci sarebbe ancora tanto da dire e mostrare, ma come ho detto in principio, l'intento era di offrire una panoramica, e l'invito è di approfondire via web, perché ci sono tante cose interessanti su queste tre artiste. Avevo molti più preconcetti sulla body art prima di incrociare l'arte di Marina Abramovic, quindi mi è stato utile questo viaggio su sentieri che non sentivo troppo miei.

Allego un ultimo link-intervista, in cui Marina spiega la sua idea di essere artisti: 
Advice to the young.  


Ringrazio Maria Pia Giansanti per le sue letture, e mi scuso se non le ho citate tutte. Preciso inoltre che il blog non è un giornale, quindi può concedersi una quantità di "prime persone" che in altri contesti forse starebbero zitte. Per alcuni questo è il valore aggiunto del mezzo, per altri è un limite. A me conforta il pensiero che ci siano tanti mezzi per tante risposte. Spero solo di scomodare qualche domanda. 

Grazie a Marina Abramovic, a Vanessa Beecroft, e a Shirin Neshat, per questa settimana passata insieme, e grazie a Simona Zava, che ormai mi ha adottata in zona Nori De Nobili. 
A quanto ne so, ci saranno nuovi incontri con la Giansanti, e sospetto si tratterà di Frida Kahlo. Dunque tenetevi informati e partecipate. Allego il link alla pagina facebook del museo: https://www.facebook.com/MuseoNoriDeNobili/

Altri link dedicati a Nori De Nobili: 

Mirella Bentivoglio. (27 maggio 2015)
L’arte non è mai una risposta, 
è una domanda.
A.B. Oliva

Nori, donna tra le donne. (15 marzo 2015)
Il viaggiatore viaggia solo, e non lo fa per tornare contento,
lui viaggia perché di mestiere ha scelto il mestiere di vento. 
-Mercanti di liquore - Il viaggiatore. 


Nori De Nobili (7 dicembre 2014)
Pallida fronte sotto scura chioma
occhi incavati in espression febbrile
torbido sguardo contro il mondo vile
tragica donna, che non fu mai doma. 
-Quaderni-

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